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Tornare in campagna: perché?

Riabitare la campagna è un fenomeno in crescita.

di Fabio De Angelis
Tempo di lettura: 4 minuti

“Io vengo dalla campagna, dove si ha la possibilità di coltivare ogni cosa e non si ha bisogno di uscire e ammazzarsi per trovare un lavoro o del denaro; tu puoi mangiare, lavarti, costruirti di tutto, dalla casa a un paio di scarpe… a me piace fare il contadino.”

ZIGGY MARLEY

Cosa spinge un cittadino a trasferirsi in campagna?

Le risposte sono tante e tutte molto personali.

C’è chi desidera calma e serenità; oppure chi viene spinto dall’amore per la terra, da quel profumo particolare che solo l’erba tagliata di fresco o le zolle appena rivoltate possono sprigionare. Oppure i colori: il verde, le nette sfumature dei fiori, il blu del cielo. Tanto cielo si vede quando si è in campagna.

Qualcuno desidera una vita più sana, prodotti genuini coltivati o realizzati da se.

Chi è spinto dall’amore per gli animali, l’allevamento: dai più usuali come cani, gatti, galline, cavalli a quelli meno frequenti come capre, lama, asini, struzzi.

Chi desidera un camino acceso nelle fredde serate d’inverno, con la pioggia o la neve a fare da sfondo animato dietro i vetri della finestra.

A volte non è l’attrazione verso il bello ma il desiderio di fuga dallo stress delle metropoli. Scappare via dalle code ai semafori, dalla gente perennemente imbestialita; dalle attese agli sportelli; dal tornare a casa senza aver nemmeno la forza, o il desiderio, di raggiungere il divano. Da quel senso sottile, quella consapevolezza appena accennata che qualcosa ci sta sfuggendo.

A volte, ed è probabilmente la motivazione più forte, sono tutte queste cose assieme.

La cultura contemporanea ha messo da parte rapidamente le nostre radici rurali. Fino agli anni ’50 del secolo scorso la cultura contadina era prevalente nel territorio italiano.

È bastata una generazione per cancellare, quasi completamente, le conoscenze contadine tramandate da secoli.

In culture lontane, come quella finlandese ad esempio, ancora oggi è fondamentale il concetto di autosufficienza: chiunque, anche fra i più giovani, sa bene come comportarsi in un bosco, come affrontare l’inverno in una baita sul lago, come scuoiare una lepre.

Oggi un giovane cittadino italiano trova difficoltà anche nell’accendere un fuoco, o nell’annaffiare pomodori.

 

Nel DNA -o nel cuore– di tanti resta però quella attrazione, quella voglia di tornare a calpestare l’erba bagnata, di sentire l’odore della frutta matura colta dall’albero, dell’alba guardata sorgere mentre si è già in piedi da un pezzo a strappare erbacce nell’orto.

Il ritorno.

Ed eccoci quindi a recuperare, a ricercare le nostre antiche e sane, radici contadine.

Qualcuno lo fa sublimando il desiderio, ritrovandosi a comprare prodotti biologici al supermercato o a passare il fine settimana in agriturismo o ancora, percorrere sentieri di trekking rurale. Altri se ne vanno, ogni tanto, dagli anziani zii in campagna, quelli che c’hanno ancora le galline.

Altri, e sono tanti oggi, che, come dicevamo all’inizio, decidono di lasciare la città e di lanciarsi in quel salto nel buio rappresentato dall’acquisto di un casale in campagna, con tutta quella terra intorno che già si immagina solcata da filari di insalatina e fagiolini.

Il salto però, spesso non è semplice e le delusioni e gli imprevisti sono all’ordine del giorno.

Una bella grandinata poco prima della raccolta di quelle belle mele; la legna bagnata che non ne vuole sapere di accendersi mentre hai i piedi freddi nei calzini umidi di nebbia; il sole inesorabile che scivola per settimane sulle foglie avvizzite dei pomodori.

Non è semplice.

Ci vuole dedizione, costanza, sintonia con i ritmi, apparentemente sconosciuti, della natura.

Problemi, si, ma che ci fanno avvicinare, lentamente, ai tempi veri, quelli che più ci appartengono, che fanno parte di noi, nascosti in quell’angolo recondito che è rimasto intatto, dentro, dai tempi in cui la nostra sopravvivenza era legata ai desideri della natura ed alla nostra capacità di dirigerla a nostro favore.

Decidere di vivere in campagna non è una scelta geografica, è una scelta filosofica, è un modo di vivere.

Andare via.

Come andarsene via, e perché.

Lasciare i ricordi, o ritrovarli. I ricordi della campagna sono insiti in ognuno di noi. Da bambini abbiamo corso certamente nei prati, abbiamo respirato quegli attimi fuggenti fatti di di puzza (ma non era puzza era quasi profumo) di cacca di mucca. L’uovo sbattuto, il fuoco nel camino, le marmellate, il burro.

Lasciare la città, cercare quei ricordi, volerne ancora sentire il sapore e viverlo.

Il perché è probabilmente proprio in quei ricordi, nel sentire che il legame più profondo ed antico è con la terra, con le sue certezze e le sue insicurezze, che ci impongono di misurarci con noi stessi, di conoscere i nostri limiti e contare sulle sole nostre capacità.

Il come è più complesso.

Nel bellissimo film “Scappo dalla città: L’amore, la vita e le vacche.” c’è un breve dialogo fra il protagonista Mitch, un americano trentanovenne in crisi, che decide di fare una vacanza tornando a rivivere la vecchia epopea dei cow-boy e Curly, un anziano mandriano, rude e saggio.

Curly: “Tu lo sai quale è il segreto della vita?”
Mitch: “No, quale è?”
Curly: mostra il dito indice “Questo.”
Mitch: “Il tuo dito?”
Curly: “Una cosa, soltanto una cosa. Tu tienila stretta e tutto il resto può anche andare a puttane.”
Mitch: “Già, certo, ma quale è questa cosa?”
Curly: “Questo sei tu che lo devi scoprire.”

Ecco, il come lo devi scoprire tu.

Il Podcast.

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